• La crescita della popolazione mondiale rallenta: è un fatto negativo?
Probabilmente è perché il prossimo 15 novembre 2022 la popolazione mondiale raggiungerà la cifra di 8 miliardi di abitanti (eravamo 1 miliardo nel 1804) che demografi, futurologi e naturalmente Elon Musk si sentono in dovere di avvisarci che no, non è della crescita del numero degli abitanti del pianeta che dobbiamo avere paura ma del declino demografico. Di norma rifuggo dalla polemica ma in questo caso sento il dovere morale di esprimere un giudizio. Vuol dire che si aggiungerà a quello di altri studiosi di trend e megatrend.
Elon Musk, per essere precisi, lo scorso 30 agosto nella dichiarazione ripresa dalla CNN affermava che “il collasso della popolazione dovuto a bassi tassi di natalità è un rischio più grande per il progresso della civiltà (civilization nel testo originale) del riscaldamento globale”. Sulle ragioni di Musk per sostenere questa posizione in ogni caso tornerò più oltre. Vediamo invece subito qualche commento da parte di esperti tra quelli che viaggiano in rete e sulla carta stampata:
1) Musk potrebbe avere ragione perché se anche il contatore della popolazione in questo momento gira in modo vertiginoso (300 mila nati oggi per ora secondo https://www.worldometers.info/world-population/, il doppio della popolazione di Firenze e 500 da quando ho iniziato a scrivere questo articolo qualche minuto fa), le stesse Nazioni Unite avvisano che il tasso di crescita della popolazione umana non è stato mai così basso negli ultimi 100 anni [1], scendendo da 2,3% negli anni ‘60 dello scorso secolo a meno dell’1% attuale.
2) A fronte di un rallentamento, l’ONU nel nuovo World Population Prospect 2022 [1] ha rivisto le stime relative al raggiungimento del picco: non più 10,9 miliardi nel 2100 (stima ritenuta ancora valida 3 anni fa) ma 10,4 miliardi, che probabilmente saranno raggiunti già alcuni anni prima della fine del secolo (plateau), con una discesa della popolazione a seguire.
3) Gruppi di ricerca indipendenti hanno formulato revisioni ancora più drastiche, come mostrato in figura: secondo alcuni la crescita potrebbe arrestarsi al raggiungimento della soglia di 9,7 miliardi nel 2070 [2].
In inglese si direbbe “And so what?”: cambia forse qualcosa per il destino del pianeta, per le generazioni future, per i nostri figli? Queste previsioni darebbero adito a una serie di riletture del passato e di indicazioni per il presente: 1) la politica del figlio unico in Cina è stata sbagliata. La popolazione cinese sarebbe diminuita ugualmente magari con tempi leggermente più lunghi, semplicemente per effetto della crescita del reddito individuale cui si associano tassi di fertilità decrescenti, e inferiori ad un certo punto ai fatidici 2,1 figli per donna che garantiscono la stabilità di una popolazione nazionale (senza flussi di immigranti); 2) meglio non intervenire quindi con odiose politiche di contenimento della popolazione nei paesi in via di sviluppo e in quelli più poveri che comunque stanno già rallentando la propria crescita (l’Africa non raggiungerà mai i 4,2 miliardi di abitanti nel 2100 ipotizzati qualche anno fa – oggi 1,4) e semmai concentrarsi sull’adozione di stili di vita più sostenibili ambientale e più favorevoli alla generazione di figli nei paesi più avanzati. Infatti, “il 7% delle persone più ricche emettono il 50% delle emissioni clima-alteranti mentre il 50% più povero emette soltanto il 7%”.
Questi ragionamenti hanno diverse falle ed è doveroso evidenziarle. La prima è facilmente visibile: il mondo è in grado sopportare (cioè di nutrire) 8 o 9 o 10 miliardi di abitanti? La risposta è che lo sta già facendo ma che potrebbe non essere in grado di farlo a lungo. Per raggiungere questo traguardo purtroppo abbiamo piegato buona parte del pianeta [3] alle esigenze umane modificandone gli ecosistemi, cioè flora, fauna, fiumi e laghi, svuotando di pesci i mari e riversandovi plastica e rifiuti, perforato montagne e scavato il sottosuolo. E ciò soltanto per nutrirci e procurarci energia. Tutto, inclusi la nostra società dei servizi ma anche i nostri passatempi e divertimenti, può essere visto in termini di energia (necessaria a produrli) o, alternativamente, in termini di impronta ecologica. La popolazione del pianeta consuma ogni anno risorse non rinnovabili per 1,75 Terre, l’Italia per 2,7 Terre mentre Paesi come l’Indonesia, con una popolazione di oltre 270 milioni di persone, consumano poco più di una Terra, se tutti si limitassero a consumare altrettanto (fonte: https://www.footprintnetwork.org/). Quindi è vero che l’impronta ecologica di un Italiano (la mia appena calcolata: 5,1 Terre) supera di gran lunga quella media degli abitanti di tanti paesi in via di sviluppo. Tuttavia l’Italia sta soltanto dando il suo esempio (sbagliato) ai cittadini del mondo, che vorranno semplicemente mangiare, viaggiare, istruirsi, divertirsi, restare connessi come noi. Quindi che la popolazione in tante aree del mondo continui a crescere a ritmi sostenuti ci deve preoccupare se il modello di produzione e consumo che noi gli offriamo è quello attuale. È utile forse a questo punto ricordare che 12-10 mila anni fa, appena prima della rivoluzione neolitica, il mondo conosceva una fase di sovrappopolazione e che all’epoca homo sapiens, migrato ai quattro angoli della Terra proprio per assicurarsi migliori condizioni di vita, contava soltanto 5 milioni di individui. Certamente un cacciatore-raccoglitore ha necessità di un’areale di dimensioni superiori ai quasi due campi di calcio necessari ad alimentare un americano medio (1,08 ha), ma insomma c’è di che riflettere. Evidentemente la questione di quanti esseri umani può nutrire il pianeta dipende dallo stile di vita della popolazione (alloggio, mobilità, dieta, ecc.) e dalla sostenibilità nel tempo (immediata, differita, totale, parziale) che vogliamo garantire [4]. A meno di non cambiare la nostra dieta occidentale (eccetera) e sempre che gli altri nel frattempo non adottino la nostra, evidentemente la terra coltivabile risulterà insufficiente per sfamare la popolazione al 2030, figuriamoci quella al 2100. Sarebbe un bene dunque che la popolazione mondiale iniziasse il proprio declino, a partire da noi Europei, se siamo scettici sulla capacità di modificare drasticamente e da adesso dieta e modalità di consumo.
La seconda falla nei ragionamenti che circolano è di tipo economico. Si presume che con il declino demografico meno persone lavorino e producano, provocando una caduta del reddito complessivo e anche il venir meno delle economie di scala che rendono profittevoli taluni investimenti. Inoltre un numero inferiore di giovani e di lavoratori potrebbero non riuscire a far fronte ai costi della previdenza sociale e dell’assistenza socio-sanitaria necessari a una popolazione invecchiata. Tutto vero: soltanto che questa stima è a produttività invariata e 0 immigrazione. Invece, come è già successo in Giappone, il reddito pro capite e la produttività possono aumentare anche in quei Paesi dove la popolazione si riduce, se investimenti e nuove economie di scala si generano in settori emergenti e ad alto potenziale di crescita. Mi riferisco a due aree in particolare: sanità e transizione ecologica. Il ciclo del consumo, i prodotti e i servizi, dovranno essere completamente ridisegnati all’insegna della salute umana e di quella ambientale, del recupero, dell’economia circolare, dell’impatto climatico 0, della decarbonizzazione. Attuando questa rivoluzione nella produzione e nei consumi, il PIL pro capite potrà tornare a crescere: quello che contabilizzeremo sarà un PIL del tutto nuovo nelle sue fondamenta. A queste condizioni, Coleman e Rowthorn [5] sarebbero sicuramente d’accordo sul fatto che “popolazioni umane più piccole [..] possono essere di beneficio all’ambiente e alla sostenibilità”. È possibile che in questo quadro economico futuro che abbiamo immaginato, radicalmente mutato rispetto all’attuale, le vetture elettriche di Tesla e i viaggi turistici verso la Luna di SpaceX non trovino abbastanza clienti. Forse Musk ha un concetto di “progresso della civiltà” vecchio stile, di tipo vittoriano, un concetto che ha contribuito a creare il tipo di trappole in cui l’umanità è già caduta e rischia ancora di cadere. A Elon Musk, sempre generoso nei consigli di lettura, e ai suoi emuli possiamo consigliare allora di leggere un libro piuttosto illuminante di Ronald Wright [6].
Concludo con una breve osservazione sul ruolo che secondo il New York Times giocherebbe la crescente uguaglianza di genere nella diminuzione dei tassi di fertilità. Le donne sarebbero meno propense a generare figli come conseguenza “di un più elevato livello di istruzione, della diffusione di sistemi anticoncezionali e di ansietà legate alla maternità” [7]. C’è da chiedersi se anche questo non sia un giudizio sommario e parziale. Alla luce di quanto abbiamo detto, forse non del tutto consapevolmente, le donne potrebbero agire anche “per il bene dell’umanità”.
Note bibliografiche
[1] United Nations Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2022). World Population Prospects 2022: Summary of Results. UN DESA/POP/2022/TR/NO. 3[2] Adam, D (2021). How far will global population rise? Researchers can’t agree. Nature online, 21 settembre.
[3] L’agricoltura occupa già il 38% delle terre emerse e la FAO stima necessario un raddoppio della produzione di cibo nei prossimi decenni per soddisfare le esigenze della popolazione mondiale in crescita. Viana, C.M.; Freire, D.; Abrantes, P.; Rocha, J.; Pereira, P. (2022). Agricultural land systems importance for supporting food security and sustainable development goals: A systematic review. Sci. Total Environ. 432, 150718.
[4] Alexander, P., Brown, C., Arneth, A., Finnigan, J., & Rounsevell, M. D. (2016). Human appropriation of land for food: the role of diet. Global Environmental Change, 41, 88-98.
[5] Coleman, D., & Rowthorn, R. (2011). Who’s Afraid of Population Decline? A Critical Examination of Its Consequences. Population and Development Review, Vol. 37, pp. 217–248.
[6] Wright, R. (2005). A short history of progress. Canongate: Edinburgh.
[7] Bokat-Lindell, S. (2022). Global population growth slows. Is that bad? The New York Times, September 16.