• Dalla caduta dell’Impero Romano a Covid-19

da | Mar 29, 2020 | 1 commento

Kyle Harper
Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero
Torino, 2019

Lo avevo da poco terminato a dire il vero, ma ho voluto rileggerlo alla luce di Covid-19 (riempiendolo di sottolineature). Perché il libro di Kyle Harper aiuta a collocare le pestilenze nel tempo profondo ovvero nella storia naturale dell’evoluzione sia degli uomini che dei microbi. Sto parlando di “Il destino di Roma” (pubblicato in inglese nel 2017), autore uno storico americano, giovane ma dal CV già chilometrico, specializzato in storia economica e storia della salute in particolare dell’epoca romana. Harper cerca di dimostrare che la caduta dell’Impero romano è stata favorita da una combinazione di fattori ambientali sfavorevoli legati al cambiamento climatico e alla diffusione di terribili epidemie.

Agli albori della potenza di Roma e sino al periodo di massima espansione la situazione era stata ben diversa. Non a caso il periodo che va dal 360 a.c. al 150 d.C. è anche conosciuto come “optimum climatico romano”. Condizioni climatiche benevole sul bacino mediterraneo (caldo umido) fecero da cornice ideale al consolidamento delle conquiste militari conseguito tramite la realizzazione di infrastrutture materiali (porti, strade, dighe e acquedotti) e immateriali (la lingua e il diritto). I commerci unirono l’Europa all’Asia, sino alla lontana Cina. Il clima favorevole consentì parallelamente ai granai periferici di sfamare la capitale e l’esercito. E garantì una certa resilienza nei confronti di shock esterni: dalle invasioni di popoli barbari a quelle di germi provenienti da oltre confine (Europa del nord, Asia e Africa).

Una prova ardua toccò all’imperatore filosofo Marco Aurelio (161-180 d.C.) che dovette confrontarsi con la prima pestilenza di carattere pandemico, la peste antonina (dal nome del suo predecessore, Antonino Pio). Sulla base dei sintomi descritti nelle fonti Harper la attribuisce al virus del vaiolo, forse trasmesso all’uomo da un roditore, il gerbillo. Il virus passava da uomo a uomo per trasmissione diretta a una distanza inferiore a 1-1,5 metri (inalazione di goccioline in sospensione nell’aria), con sintomi che si palesavano dopo un ciclo mediamente di 12 giorni (incubazione lunga che favorì il contagio) . La peste si diffuse rapidamente in tutto l’impero, mietendo vittime con un tasso di mortalità del 30-40% (variazioni in aumento o diminuzione sono state attribuite a fattori quali le condizioni igieniche e la densità abitativa). Marco Aurelio faticò a sostituire i quadri direttivi dell’amministrazione imperiale periti a causa dell’epidemia e a rinfoltire le sue truppe decimate dal virus. Lui stesso si ammalò e forse morì di vaiolo. L’Impero tuttavia sopravvisse e la pandemia passò.

Nel 249 d.C. la peste tornò, forse a partire da un focolaio individuato in Egitto. La peste di Cipriano presentava tuttavia sintomi diversi dalla precedente. Harper propende per una “influenza pandemica” (simile alla Spagnola che si diffuse alla fine della Grande Guerra) ma non esclude che potesse trattarsi in alternativa di una “febbre emorragica” (tipo ebola).  Il decorso dell’infezione era spaventoso: diarrea, vomito, pustole, congiuntivite, cancrena, perdita dell’udito, cecità. Il tasso di mortalità molto elevato (anche il 60%). Due imperatori (Diocleziano e Costantino), che si distinsero come condottieri e validi amministratori, riuscirono comunque a mantenere l’ordine, aiutati in parte dal clima che assicurò buoni raccolti e quindi i necessari approvvigionamenti.  L’Impero romano d’Occidente cadde nel 476 ma secondo Harper questa non fu la fine della civiltà romana. I Barbari ne assimilarono le fondamenta mentre da Costantinopoli partiva la riconquista dell’Occidente sotto la guida di Giustiniano (Imperatore dal 527-565) e del suo generale Stilicone.

Nonostante le sue capacità (la codifica delle leggi romane, l’impulso alle opere pubbliche, la pace con la Persia), Giustiniano non riuscì a “contenere” il nuovo flagello di Dio, la peste, che questa volta si presentò sotto le spoglie di un batterio, Yersina pestis. Era da tempo endemica tra i roditori escavatori dell’Asia, ma forse anche per effetto dei cambiamenti climatici, la peste trovò il modo di trasmettersi a un nuovo ospite, il ratto nero, e da questo all’uomo. L’ultimo salto di specie fu mediato dalle pulci. Non ne sappiamo molto di più. Il morbo si manifestò nel 541 d.C. a Pelusium, importante città romana sul delta del Nilo al confine con l’Arabia, ben collegata con i porti del Mar Rosso e quindi con il Medio ed Estremo Oriente. Sbarcò quindi a Costantinopoli nel 542, a Roma nel 543, in Inghilterra nel 544. Si trattava dello stesso agente patogeno della Morte Nera che spazzò l’Europa nel Trecento. Trovò molteplici canali di diffusione. I ratti neri, sulla scia del grano e dei vettovagliamenti, percorsero vie marittime e strade consolari che costituivano le arterie dell’Impero di  Giustiniano. La peste fu bubbonica ma anche “setticemica primaria” cioè fulminante. Le cronache raccontano di pranzi durante i quali alcuni commensali improvvisamente ammutolivano e cadevano a terra morti. La stessa cosa successe in occasione delle tante processioni di preghiera organizzate dai vescovi cristiani per chiedere clemenza a Dio.

Si diffusero il panico e la convinzione che l’apocalisse fosse vicina. Le fosse comuni non si contavano e talvolta l’autorità non riusciva a reclutare becchini per seppellire i cadaveri. A Costantinopoli la popolazione si ridusse probabilmente del 50-60%. Per usare le parole di Harper, “l’ordine sociale dapprima vacillò, poi collassò del tutto”. Il tramonto  definitivo dell’ordine romano, in Occidente come in Oriente (dove iniziò a diffondersi l’Islam), fu il risultato di una esplosione a catena: la peste infatti imperversò per duecento anni e Costantinopoli, per esempio, tra il 542 e il 619 ne fu colpita ogni 15,4 anni di media.

Nel frattempo, i cambiamenti climatici posero fine a qualsiasi residua manifestazione di resilienza. Harper osserva che già nel 536 vi fu un anno senza estate (per effetto della prima di una serie di eruzioni vulcaniche), cui seguì un disastroso inverno vulcanico nel 540-541. Ma in generale furono tutti gli anni 30 e 40 del VI sec. a essere gelidi per l’avanzare della “Piccola glaciazione della Tarda Antichità”. Altri fattori oltre al vulcanismo operavano nel senso di un raffreddamento climatico: la diminuzione del calore solare e la variabilità naturale (si veda in proposito la nostra recensione di “Storia culturale del clima”, di W. Behringer). Il periodo di maggior gelo durò 150 anni. Costantinopoli, piegata da una recessione economica e demografica, non riuscì né a garantire i confini dell’impero né le vestigia della sua civiltà. “Siria, Palestina ed Egitto caddero in mano araba nel giro di un decennio”, scrive Harper.

Che conclusioni possiamo trarre da questa rilettura sostanziale della storia della Tarda Antichità? Innanzitutto notiamo come un ordine economico, giuridico e sociale millenario possa crescere e radicarsi all’interno di un eco-sistema ma anche cadere e frammentarsi  quando l’eco-sistema improvvisamente muta e diviene sfavorevole. La seconda osservazione riguarda il rischio sistemico connesso con una pandemia quando a essere investita è una società globalizzata: tale era l’Impero romano con le sue vie di comunicazione e i suoi traffici commerciali. La terza osservazione riguarda il collegamento tra pestilenze e cambiamenti climatici. Harper non indaga in questa direzione, noi oggi tuttavia con riguardo a Covid-19 dovremmo forse farlo. La quarta osservazione, purtroppo, è quella più drammatica: i romani non avevano nessun controllo sul virus e tantomeno sul clima. Noi oggi siamo in grado di creare virus letali con le biotecnologie e parimenti di cambiare il clima, provocando il riscaldamento globale. C’è da chiedersi, in ogni caso, quanto Covid-19 sia Flagello di Dio o quanto piuttosto Flagello dell’Uomo.

Quest’ultima osservazione ci avvicina ad un quesito del quale tanti dibattono: l’evento Covid-19 è un “cigno nero” (evento imprevisto che cambia il corso della storia)? Non risponderò qui, oggi. Mi riservo piuttosto di tornare su questo aspetto in successivi approfondimenti. Invece, mi limito a notare come il libro di Harper abbia influito sulla costruzione degli Scenari Settoriali per l’industria cui ho lavorato l’anno scorso, insieme a un testo divulgativo di Barbara Galavotti dedicato a “Le grandi epidemie” (Donzelli Editore, 2019). In un certo senso, entrambe queste letture hanno elevato la mia percezione di analista dei rischi impliciti nei megatrend della globalizzazione (avevo già letto Spillover di David Quammen nel 2014) e del “degrado ambientale”.

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